La
Preghiera per la Pace di Angelica, israeliana, e Samar,
palestinese.
di. . .
200?
Le immagini e le parole che quotidianamente ci
mostrano il rapporto tra israeliani e palestinesi sono solo la
coniugazione di “guerra, odio, violenza”. Le parole di Angelica e di
Samar, e più ancora i loro gesti, l’espressione dei bei visi, il
suono stesso delle loro voci, manifestano, invece, “pace, amicizia,
perdono”. La comunicazione che tra loro si vede intensa, esprime
questa volontà, in radicale contrasto con la situazione, che loro
stesse vivono, in cui sono immerse, ogni giorno. Raccontano drammi,
per loro storia quotidiana: “La guerra fa parte della nostra vita e
dei nostri pensieri”, entra dentro tutte le relazioni, di coppia,
con i figli, con gli amici…Tutto intorno a noi grida: dolore! E noi
siamo nel mezzo”. La dimensione del futuro non esiste. Una dice: “Le
donne in Israele la mattina accompagnano i figli alla fermata e si
premurano di caricarli in autobus diversi. E’ una possibilità in più
che almeno uno torni la sera a casa”. E l’altra:. “La vita è
difficile in Palestina. Posti di blocco, dove stiamo fermi per ore e
dove i soldati israeliani controllano tutto, povertà, mancanza di
acqua e di cibo, disperazione. Ma anche voi israeliani è come se
aveste un coprifuoco. I bambini crescono traumatizzati, nella paura,
nell'inquietudine costante”. Sentendo i loro racconti, e soprattutto
quanto fanno per educare alla pace, per compiere azioni di pace –e
anche, ma non solo, dimostrazioni per la pace- non ci sono più le
situazioni di israeliani e palestinesi contrapposte, come ci vengono
presentate, l’una che vive sulla negazione dell’altra, ma come una
condizione comune, di guerra subita, e quindi di morte e angoscia,
condivisa, che accomuna e non incrina, crea legami e non muri, ponti
e non confini. Il conflitto rimane, ma il comune desiderio di pace,
di futuro sereno per i figli, di canto e di danza, fa di questa
comune condizione di lacerazione un fattore di lotta non per
distruggere l’altro-nemico, ma per affermare i diritti dell’amicizia
tra persone concrete, di fratellanza, di sorellanza. E così si
capovolgono le logiche della violenza e dell’inimicizia in quelle
della comunicazione della comune sofferenza e condivisione
dell’aspirazione a capire le paure e i desideri dell’altro, premessa
per capirne anche le ragioni.
“Noi siamo sorelle”, dicono. Angelica e Samar.
Angelica Calò Livnè, ebrea romana, allieva del rabbino Toaff, dal
1975 vive a Sasa, un Kibbutz di frontiera tra Libano e Siria, uno
dei pochi kibbuzzim che ancora conservano per intero le regole del
socialismo ideale delle origini, dove vive ancora con il marito
Yehuda e i quattro figli. Negli anni ’90 è coordinatrice del
Movimento giovanile Hashomer Hatzair della sinistra laburista “Peace
now” in Italia. Oggi lavora come educatrice nella Galilea e ha
promosso il Teatro dell’Arcobaleno con ragazzi e ragazze dai 15 ai
22 anni che "imparano a calare le proprie maschere e coinvolgono il
pubblico in mimi, canti, danze e dialoghi che manifestano il
desiderio di pace, di vivere il conflitto non con la violenza e
l’odio ma con il dialogo, la reciproca conoscenza e la
comprensione". Da tre anni si occupa anche di bambini colpiti dal
terrorismo e tra le altre cose, insieme al marito, organizza con
loro viaggi in Italia "per disegnare un sorriso sui loro volti", per
dimostrare che sull'altro piatto della bilancia c'e' anche l'amore,
tanto amore.
Samar Sahhar, palestinese, cristiana, vive a Betania, dove opera
nella casa “Jeel Al Amal” (Generazione della speranza) che ospita
più di cento bambini palestinesi orfani o abbandonati, di religione
musulmana, e dove dirige una scuola con 300 alunni palestinesi.
Cinque anni fa ha cominciato una nuova iniziativa “La casa di
Lazzaro”, per le bambine, le ragazze-madri e le donne in difficoltà.
Da poco ha creato un panificio per dare pane e lavoro e il prossimo
progetto e' un’infermeria.
Così diverse tra loro, come capita spesso alle
sorelle, quelle per nascita e quelle, come loro, per comunione di
storie, di dolori, impegni, gioie, sognano un futuro diverso per i
loro ragazzi. Un futuro dove le parole odio, paura, terrore, dolore
non facciano parte del quotidiano.
L’esperienza diventa preghiera. Dice Samar: “O
Dio, io sono sicura che tu stia agendo. Noi siamo umani senza
umanità. O Dio, tu vedi che stiamo costruendo tombe anziché
giardini. Dio, noi chiediamo salvezza e perdono. Noi vogliamo essere
responsabili di quel che facciamo. Un giorno i nostri figli ci
chiederanno perché non siamo riusciti a vivere assieme”.
La preghiera diventa impegno, forte perché
fondato sull’ascolto. A chi le manifesta rancore e la minaccia,
accusandola di tradimento, Samar risponde: ”Siamo qui per parlare di
pace, per raccontare la nostra opera di pace e non per dire chi ha
colpa, chi ha torto e chi ha ragione" "Siamo qui a costruire ponti,
a mostrare i ponti nascosti! – aggiunge Angelica ”Siamo qui a
chiedervi di ascoltare”.
Questo ho capito da loro e dai ragazzi/e, dal loro spettacolo e
dalla loro richiesta esplicita: non giudicateci, aiutateci a
incontrarci tra noi, di religioni e di popoli diversi, che i governi
vogliono far crescere nemici.
ESODO ha avuto la fortuna di portare a Mestre, lo
scorso anno, questo Teatro. Ora, con altri gruppi, stiamo
organizzando un giro nel Veneto a settembre. Il 26 e il 27/9 sarà a
Mirano e a Mestre, nelle scuole e in teatro.
Non e’ un incontro di ideologie, di visioni
politiche, ma con persone concrete, che lottano per la pace, dentro
tutte le contraddizioni di una storia in cui si sono accumulate
macerie, delle città e delle case, ma soprattutto degli animi.
La preghiera di pace, verso l’unico Dio e verso
gli uomini di buona volontà, che ci accomuna, ci spinge al comune
impegno per contribuire a creare le condizioni per fare silenzio
sulle colpe della guerra e per restare in ascolto reciproco.
Nessuna ingiustizia subita, nessuna legittima
rivendicazione, nessuna disperazione e paura, giustifica la
violenza; nessun Dio, nessuna utopia e nessun orgoglio per la
propria identità di popolo, può legittimare la negazione,
l’emarginazione dell’altro.
Credenti e non credenti in un Dio, possono
mettersi in questo atteggiamento di preghiera-invocazione-ascolto,
che fa vedere e capire il volto concreto e la voce dell’altro dentro
di se, e risveglia nell’altro questo stesso desiderio, come avviene
nel Teatro dell’Arcobaleno, in cui il racconto parte con il mutismo
del rancore sordo che rifiuta la parola e impedisce il reciproco
guardarsi, e si sviluppa nel silenzio che vuol capire e vedere, vuol
togliersi e togliere le maschere che obbligano a stereotipi e
pregiudizi, fino al canto e alla danza comuni pur nelle differenze
che rimangono come manifestazioni dell’unica umanità non appiattita
dalle maschere.
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