Teatro Arcobaleno Rainbow Theatre

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La Preghiera per la Pace di Angelica, israeliana, e Samar, palestinese.
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Le immagini e le parole che quotidianamente ci mostrano il rapporto tra israeliani e palestinesi sono solo la coniugazione di “guerra, odio, violenza”. Le parole di Angelica e di Samar, e più ancora i loro gesti, l’espressione dei bei visi, il suono stesso delle loro voci, manifestano, invece, “pace, amicizia, perdono”. La comunicazione che tra loro si vede intensa, esprime questa volontà, in radicale contrasto con la situazione, che loro stesse vivono, in cui sono immerse, ogni giorno. Raccontano drammi, per loro storia quotidiana: “La guerra fa parte della nostra vita e dei nostri pensieri”, entra dentro tutte le relazioni, di coppia, con i figli, con gli amici…Tutto intorno a noi grida: dolore! E noi siamo nel mezzo”. La dimensione del futuro non esiste. Una dice: “Le donne in Israele la mattina accompagnano i figli alla fermata e si premurano di caricarli in autobus diversi. E’ una possibilità in più che almeno uno torni la sera a casa”. E l’altra:. “La vita è difficile in Palestina. Posti di blocco, dove stiamo fermi per ore e dove i soldati israeliani controllano tutto, povertà, mancanza di acqua e di cibo, disperazione. Ma anche voi israeliani è come se aveste un coprifuoco. I bambini crescono traumatizzati, nella paura, nell'inquietudine costante”. Sentendo i loro racconti, e soprattutto quanto fanno per educare alla pace, per compiere azioni di pace –e anche, ma non solo, dimostrazioni per la pace- non ci sono più le situazioni di israeliani e palestinesi contrapposte, come ci vengono presentate, l’una che vive sulla negazione dell’altra, ma come una condizione comune, di guerra subita, e quindi di morte e angoscia, condivisa, che accomuna e non incrina, crea legami e non muri, ponti e non confini. Il conflitto rimane, ma il comune desiderio di pace, di futuro sereno per i figli, di canto e di danza, fa di questa comune condizione di lacerazione un fattore di lotta non per distruggere l’altro-nemico, ma per affermare i diritti dell’amicizia tra persone concrete, di fratellanza, di sorellanza. E così si capovolgono le logiche della violenza e dell’inimicizia in quelle della comunicazione della comune sofferenza e condivisione dell’aspirazione a capire le paure e i desideri dell’altro, premessa per capirne anche le ragioni.

“Noi siamo sorelle”, dicono. Angelica e Samar. Angelica Calò Livnè, ebrea romana, allieva del rabbino Toaff, dal 1975 vive a Sasa, un Kibbutz di frontiera tra Libano e Siria, uno dei pochi kibbuzzim che ancora conservano per intero le regole del socialismo ideale delle origini, dove vive ancora con il marito Yehuda e i quattro figli. Negli anni ’90 è coordinatrice del Movimento giovanile Hashomer Hatzair della sinistra laburista “Peace now” in Italia. Oggi lavora come educatrice nella Galilea e ha promosso il Teatro dell’Arcobaleno con ragazzi e ragazze dai 15 ai 22 anni che "imparano a calare le proprie maschere e coinvolgono il pubblico in mimi, canti, danze e dialoghi che manifestano il desiderio di pace, di vivere il conflitto non con la violenza e l’odio ma con il dialogo, la reciproca conoscenza e la comprensione". Da tre anni si occupa anche di bambini colpiti dal terrorismo e tra le altre cose, insieme al marito, organizza con loro viaggi in Italia "per disegnare un sorriso sui loro volti", per dimostrare che sull'altro piatto della bilancia c'e' anche l'amore, tanto amore.
Samar Sahhar, palestinese, cristiana, vive a Betania, dove opera nella casa “Jeel Al Amal” (Generazione della speranza) che ospita più di cento bambini palestinesi orfani o abbandonati, di religione musulmana, e dove dirige una scuola con 300 alunni palestinesi. Cinque anni fa ha cominciato una nuova iniziativa “La casa di Lazzaro”, per le bambine, le ragazze-madri e le donne in difficoltà. Da poco ha creato un panificio per dare pane e lavoro e il prossimo progetto e' un’infermeria.

Così diverse tra loro, come capita spesso alle sorelle, quelle per nascita e quelle, come loro, per comunione di storie, di dolori, impegni, gioie, sognano un futuro diverso per i loro ragazzi. Un futuro dove le parole odio, paura, terrore, dolore non facciano parte del quotidiano.

L’esperienza diventa preghiera. Dice Samar: “O Dio, io sono sicura che tu stia agendo. Noi siamo umani senza umanità. O Dio, tu vedi che stiamo costruendo tombe anziché giardini. Dio, noi chiediamo salvezza e perdono. Noi vogliamo essere responsabili di quel che facciamo. Un giorno i nostri figli ci chiederanno perché non siamo riusciti a vivere assieme”.

La preghiera diventa impegno, forte perché fondato sull’ascolto. A chi le manifesta rancore e la minaccia, accusandola di tradimento, Samar risponde: ”Siamo qui per parlare di pace, per raccontare la nostra opera di pace e non per dire chi ha colpa, chi ha torto e chi ha ragione" "Siamo qui a costruire ponti, a mostrare i ponti nascosti! – aggiunge Angelica ”Siamo qui a chiedervi di ascoltare”.
Questo ho capito da loro e dai ragazzi/e, dal loro spettacolo e dalla loro richiesta esplicita: non giudicateci, aiutateci a incontrarci tra noi, di religioni e di popoli diversi, che i governi vogliono far crescere nemici.

ESODO ha avuto la fortuna di portare a Mestre, lo scorso anno, questo Teatro. Ora, con altri gruppi, stiamo organizzando un giro nel Veneto a settembre. Il 26 e il 27/9 sarà a Mirano e a Mestre, nelle scuole e in teatro.

Non e’ un incontro di ideologie, di visioni politiche, ma con persone concrete, che lottano per la pace, dentro tutte le contraddizioni di una storia in cui si sono accumulate macerie, delle città e delle case, ma soprattutto degli animi.

La preghiera di pace, verso l’unico Dio e verso gli uomini di buona volontà, che ci accomuna, ci spinge al comune impegno per contribuire a creare le condizioni per fare silenzio sulle colpe della guerra e per restare in ascolto reciproco.

Nessuna ingiustizia subita, nessuna legittima rivendicazione, nessuna disperazione e paura, giustifica la violenza; nessun Dio, nessuna utopia e nessun orgoglio per la propria identità di popolo, può legittimare la negazione, l’emarginazione dell’altro.

Credenti e non credenti in un Dio, possono mettersi in questo atteggiamento di preghiera-invocazione-ascolto, che fa vedere e capire il volto concreto e la voce dell’altro dentro di se, e risveglia nell’altro questo stesso desiderio, come avviene nel Teatro dell’Arcobaleno, in cui il racconto parte con il mutismo del rancore sordo che rifiuta la parola e impedisce il reciproco guardarsi, e si sviluppa nel silenzio che vuol capire e vedere, vuol togliersi e togliere le maschere che obbligano a stereotipi e pregiudizi, fino al canto e alla danza comuni pur nelle differenze che rimangono come manifestazioni dell’unica umanità non appiattita dalle maschere.
 


 

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