Il Teatro
dei miracoli.
Bambini arabi ed ebrei fatti recitare insieme: così è nata una
tregua sulle barricate.
Il Corriere della Sera - 2.11.2003
BETANIA (Cisgiordania) - A dividere il piccolo
teatro di kibbutz dalla casa d'accoglienza di Betania ci sono molti
chilometri d'autostrada, il lago di Tiberiade, poi la valle del
Giordano. E i cecchini. E il muro di Sharon. E i doppi giochi di
Arafat. E i checkpoint che ingabbiano la Cisgiordania. E l' odio
della seconda Intifada. E, alla fine, la Storia con la esse
maiuscola. Angelica e Samar sono riuscite ad attraversare tutto
questo con un abbraccio che dura da due anni.
Tra i frutteti e le torrette militari nel nord di
Israele, al confine col Libano degli hezbollah, in quel piccolo
teatro che si chiama Arcobaleno, Angelica Calò Livnè insegna a
recitare la pace a ragazzini ebrei, arabi, circassi, drusi,
cristiani, musulmani; prega a ogni attentato, a ogni rappresaglia,
«mio Dio, scaccia l'odio, facci rimanere quello che siamo». Dice:
«Cercavo da tanto un'amica palestinese, una come me. Mi hanno
parlato di lei, un giorno le ho telefonato, l'ho incontrata: anche
tu devi assolutamente incontrare Samar, è speciale».
Sommersa dal mucchio selvaggio dei suoi bambini (lei li chiama «i
miei figli») all'orfanotrofio Jeel El Amal di Betania, che ha
ereditato dai genitori e ingrandito in un rifugio ancora più
temerario - Lazarus Home - in cui si nascondono pure ragazze madri
che la società palestinese condannerebbe senz'appello, Samar Sahhar
è speciale davvero. Sorride: «Angelica è diventata mia amica, poi
mia sorella. Dio ci ha fatte uguali».
Questa è la storia di un'amicizia quasi vietata
dalla ragion politica, la storia con la esse minuscola di
un'israeliana e una palestinese che forse Dio ha fatto davvero
uguali ma che parrebbero quasi opposte: minuta e tutta nervi
Angelica, boccoli neri e lunghe ciglia che s'inumidiscono per un
nonnulla; quadrata e inaffondabile Samar, capelli corti e braccia da
campione della fede.
Solo con più attenzione si coglie quel loro
sguardo, identico, e allora si capisce che quando si chiamano
«sorelle» non è tanto per dire. Mercoledì scorso si sono ritrovate a
Roma, al teatro Vittoria, davanti a seicento ragazzi di sette licei.
Prima dello spettacolo che Angelica sta portando in giro per
l'Italia, «beresheet, In principio», coi suoi diciotto giovanissimi
attori che danzano coperti da maschere bianche e recitano frasi come
«non c'è nessun posto sicuro! Dev'esserci una soluzione... una
speranza!», Samar è salita sul palco. Nemmeno Angelica se
l'aspettava. Si sono abbracciate così, davanti ai ragazzi romani che
non capivano, poi Samar ha detto che «se tutto il mondo vedrà questo
spettacolo tutti sapranno che la pace si può fare». Alla fine, prima
di esplodere in un lungo applauso, gli studenti sono rimasti tre
minuti senza parole.
La piccola storia testarda di Angelica e Samar è
invece piena di parole. Con le parole Angelica - una romana di 47
anni che appena ragazza è andata a vivere a Sasa, uno degli ultimi
kibbutz ancora fedeli agli ideali socialisti delle origini - ha
insegnato a Batya e Nemi, Amal e Sharif e a tutti gli altri allievi
del laboratorio teatrale di Kerem Ben Zimra che si può fare
qualcosa, «che non basta piangere davanti alla televisione». L'idea
di «beresheet», quelle maschere bianche che cadono sul palco
«svelando la bellezza di ogni diversità», accompagnate dalle canzoni
di Noah («è finita, è tutto passato, toccheremo il sogno»), è nata
dai ragazzi, lavorando per sei mesi con loro. «Quando ne parlai la
prima volta al consiglio regionale dell'Alta Galilea, quando dissi
che volevo anche ragazzi arabi, mi dissero, "beh, l'idea è buona,
però con l'Intifada, capisci, politicamente, non è il caso, gli
arabi lasciali perdere". Risposi: "O loro o niente". Ci è andata
bene». Uno dei suoi attori, Sharif Balut, un ragazzone arabo del
villaggio di Fassuta, ha preso così sul serio il copione che è
riuscito a far scoppiare la pace, quella vera, tra i suoi compaesani
e i ragazzi ebrei di Elkosh: «Eravamo alla guerra tra bande, ma
sulla loro barricata ho notato Ofri - racconta - che un giorno era
venuto a vedermi a teatro. Mi sono fatto avanti. Gli ho detto: ti
ricordi di me, amico? Si ricordava, sì. E tutti assieme abbiamo
fatto la sulha , che significa riconciliazione sia in arabo che in
ebraico».
Anche Samar, nei due rifugi gemelli ai lati di
una polverosa strada di Betania, lavora con le parole: parole da
mamma o da sorella maggiore, per i 70 bambini di Jeel El Amal
(«Generazione della speranza»), le 33 bambine di Lazarus Home e le
donne che, nascoste all'orfanotrofio, trovano riparo dai loro guai -
in questo momento sono tre, una prostituta, una appena uscita dal
manicomio e una che ha ucciso il suo stupratore.
Samar ha 42 anni, è cattolica, la prima pietra
del primo rifugio è stata messa da Alice, sua madre, tanti anni fa.
«Sono consacrata con i Memores Domini», dice. Non ha una famiglia
sua. «Ma i miei figli sono questi». Abdallah, 10 anni, moncherini al
posto delle mani, portato lì che non parlava neppure («ora è il più
bravo della quarta elementare») le ha chiesto: «Mamma, come fanno le
mucche e le pecore a mangiare, se c'è la guerra?». Tutti assieme,
coi bambini raccolti nei campi profughi di Ramallah, di Betlemme, di
Tulkarem, hanno deciso che mucche e pecore devono riprendere a
mangiare, quindi la guerra deve finire. Samar ci mette del suo: «Un
orfano non ha nessuno, quindi i ragazzi della strada sono tutti
abili e arruolati per l'Intifada. I miei no. Non voglio che i miei
figli muoiano o uccidano», sbotta.
Contro reclutatori e Autorità palestinese
combatte così la sua invisibile guerra, pagando dazio. Ha aperto una
panetteria in paese per raccogliere fondi, ma da un anno non le
allacciano la corrente elettrica. La gente della strada ha firmato
una petizione per chiudere l'orfanotrofio «che nasconde le
donnacce». Se lei mollasse, «le donnacce» verrebbero probabilmente
lapidate. Quindi tiene duro. E stringe a sé gli ultimi piccoli
arrivati, Safiria, 6 anni, trovata in un pollaio piena d'ustioni,
Nanni, 7 anni, ch'era incatenato in una grotta a Betlemme. Coccola
Nahla, 14, che ha una lunga cicatrice sulla fronte ma è un cannone
in scienze e va alle manifestazioni di Peace Now. «Cantiamo insieme,
habibti, amori miei», dice. Dal refettorio si alzano voci di
cristallo, «Ya raba salam/ imnan biladana salam, Dio della pace/ dà
la pace alla nostra terra», e arrivano fino alla lavanderia
governata da Alia, la donna che ha ucciso il suo violentatore. I
parenti di lui la cercano da quando è uscita di galera. Ha una
faccia incartapecorita. Dice: «Sono brava a lavare, sai? Però ho
sempre mal di gambe, mal di tutto». Samar le accarezza una mano,
«passerà, vedrai, passerà tutto».
Aspettando che tutto passi, Samar e Angelica
hanno riempito questi due anni d'amicizia. Il primo incontro a
Gerusalemme est, il secondo al Muro del Pianto. Insieme hanno girato
scuole e università d'Italia, preso premi, partecipato a dibattiti
dal titolo «La sfida di due donne». L'anno scorso «Excalibur» ha
dedicato loro venti minuti di speciale. Presto due ragazzi
dell'orfanotrofio si aggregheranno alla compagnia dell'Arcobaleno.
Ma non è sempre facile. All'università di Bari sono andate a dire
«siamo due amiche, non Sharon e Arafat» e qualcuno s'è sdegnato:
«Volete scherzare? Non basta un'amicizia per fermare la guerra». Per
tipi simili Samar ha una storiella: «Un uomo vide un uccellino steso
sul dorso. "Perché stai così?", gli chiese. E quello: "Ho sentito
che oggi Dio scaglierà il cielo sulla terra, sto cercando di
proteggere la terra". L'uomo rise: "Sul serio? Cerchi di salvare la
terra con le tue minuscole zampette?". L'uccellino rispose: "Io
voglio fare del mio meglio!"». Goffredo Buccini
Perché il premio ad Angelica e Samar?
La giuria ha assegnato il premio di 5.000 euro
per la “Libertà e promozione dell’uomo” all’educatrice israeliana
Angelica Calò Livné e alla direttrice di orfanotrofio la palestinese
Samar Sahhar. La giuria era composta da: Franco Mascia (presidente
di Difendiamo il Futuro Sardegna), Mario Mauro (presidente di
Difendiamo il Futuro), Giorgio Vittadini (presidente Compagnia delle
Opere), Luigi Amicone (direttore Tempi), Antonio Socci
(vicedirettore Rai Due), Renato Farina (vicedirettore Libero),
Alessandro Maida (Rettore Università di Sassari), Cosimo Filigheddu
(inviato La Nuova Sardegna), Antonello Arru (presidente Fondazione
Banco di Sardegna), Giampiero Farru (presidente CSV Sardegna
Solidale), Roberto Perrone (inviato Corriere della Sera), Ubaldo
Casotto (vicedirettore Il Foglio), Pierluigi Battista (inviato La
Stampa).
Nella drammatica storia di Abramo - che è alle
origini di tutti noi - si legge che il patriarca, davanti alla
prospettata distruzione di Sodoma, si lanciò in una vertiginosa
trattativa con l’Onnipotente. Fino a ottenere da Lui che la città
non fosse distrutta se vi si fossero trovati dieci giusti. Aleksandr
Solzenicyn, evocando questo episodio biblico in un suo racconto, La
casa di Matriona, conclude che proprio quella donna, Matriona, era
colei grazie alla quale il villaggio poteva esistere. Ho voluto
ricordare queste due immagini perché sono quelle che a me vengono
sempre in mente quando penso ad Angelica e Samar.
Una città, un popolo, una nazione, uno Stato, non
sono solo entità politiche, istituzionali, economiche. Si
dissolverebbero se fossero solo questo. Hanno bisogno di un’anima
che dia loro vita. Per chi si sia imbattuto nei volti di queste due
donne, nelle loro storie, appare evidente che esse fanno emergere
l’anima luminosa dei loro popoli. Il fatto che esistano persone come
loro significa che il Buon Dio ha un progetto buono per i loro due
popoli, che hanno una speranza, che hanno un destino di pace. E che
ce l’hanno insieme.
Per chi abbia colto la luce dei loro occhi e la luce che
rappresentano per i bambini e i giovani vulnerati dal dolore con cui
vivono e lavorano - vivendo entrambe una maternità spirituale che è
forse ancora più grande della pur grandissima maternità biologica -
risulta chiaro che odio e violenza non sono l’ultima parola sul
mondo.
Non c’è una maledizione su quella terra che ha
dato tanto alla storia umana, non c’è una maledizione che condanna
tutto e tutti alla distruzione. Si ritiene sempre che siano le élite
politiche a dover risolvere i problemi. Ma invece quello che è
veramente decisivo, su tutto, è ciò che viene seminato nei cuori,
soprattutto nei cuori dei bambini, nelle anime dei giovani. Angelica
e Samar sono delle silenziose seminatrici di umanità, quindi sono il
volto della speranza. Penso che il Buon Dio vedendo i volti di
persone come loro benedica i loro popoli.
Antonio Socci
Una testimonianza di Angelica Calò Livnè
L'educazione è speranza. È l'ultima speranza che
è rimasta al mondo per sopravvivere. Educazione dei figli,
educazione di noi stessi. Alcuni giorni fa ero con un gruppo di
vecchi amici. Ci si incontra ogni anno, veniamo da tutta Israele e
camminiamo per km tra rocce e boschi per conoscere di più questa
piccola terra e attraverso il dialogo con la natura il nostro legame
si fa sempre più saldo.
Sembrava che nulla potesse intaccare lo spirito
di questi sabre inossidabili straordinariamente abbronzati tutto
l'anno per il lavoro all'aria aperta, era impensabile che l'amarezza
e l'incredulità per la situazione in Israele potesse disegnare
nemmeno per un attimo un'ombra di sconforto anche nei loro occhi.
Durante la gita tra una scalata e l'altra sulle rocce del deserto
nel Wadi Daraje davanti al Mar Morto, mi sembrava di non riconoscere
più gli amici di sempre, questo gruppo di persone di grande qualità
e spessore umano che 25 anni fa aveva liberato a Misgav Am, un
kibbutz sulla frontiera con il Libano, 11 bambini di tre anni che
due terroristi avevano preso in ostaggio.
Mentre camminavamo tra due pareti immense di
rocce maestose raccontavo loro dei miei viaggi in Italia e nel mondo
insieme a Samar Sahhar, la mia amica palestinese, direttrice di un
orfanotrofio a Betania, del nostro impegno per la pace e
dell'affetto con cui veniamo accolte ovunque raccontiamo la nostra
esperienza educativa.
Avi, agronomo, mi interrompe: "È bellissimo
sentire le tue storie sul tuo teatro di ragazzi ebrei ed arabi e sui
tuoi sforzi per avvicinare i cuori, ma non c'e' niente da fare cara
amica: loro, gli arabi, ci vogliono morti, non ci vogliono qua in
Israele, non hanno nessuna intenzione di vivere al nostro fianco!
Non ci sarà mai pace con i palestinesi. Non si potrà mai dialogare
con questa gente, so che lo desideri molto ma non è un sogno
realizzabile!"
Sono uomini di 45 anni che ho conosciuto ragazzi,
quando avevano l'età che ha ora mio figlio. Padri senza un futuro,
che costruiscono case e famiglie a cui non possono promettere nulla.
Comincia una discussione accesa, dolorosa, di gente che si sente
tradita e io mi rendo conto che non posso essere sopraffatta dalla
tristezza, dai fatti, da immagini di attentati, di barriere. Mi
rendo conto che hanno bisogno di sentire la mia voce. Una voce che
era anche la loro e che hanno perso perché non hanno la fortuna come
me di credere profondamente nella forza e nel valore inestimabile
dell'educazione.
Di sapere di avere la responsabilità di una
generazione da crescere. "E allora perché restare qui? - domando
-"Perché rimanere attaccati a questa terra così profondamente?
Perché insegnare ai nostri figli a conoscerne ogni piccola pietra?
Abbiamo il dovere di sperare, di continuare a provare a cercare il
modo di vivere insieme a loro, alla gente che abita al di là della
barriera. Di convicerli e convincerci che si può. Di trovare il modo
di crescere i loro e i nostri figli normalmente! Dobbiamo fare il
possibile! E dobbiamo iniziare dall'educazione, nostra e loro, lo
stiamo facendo e continueremo a farlo, non possiamo arrenderci. Solo
noi possiamo insegnare a questa gente il coraggio di amare la vita,
il segreto della laboriosità che crea lavoro, pane, speranza!"
La mia voce echeggia come a supplicare i miei
interlocutori di non mollare, non loro per favore! "Ma oggi la
Galilea è la culla di Hamas...." mi dice Hanoch. "Lo so, io ci vivo
in Galilea ma gli arabi di Fassouta e di Jish sono di casa da noi. E
tanti di loro cercano la tranquillità come la cerchiamo noi. La vita
da vivere è molto meno complicata della vita che si racconta!"
Al momento di lasciarci Amos, il più
disincantato, con un passato ricco di storie, uno che gli arabi li
conosce bene, per averci lavorato insieme, per averci vissuto
insieme mi abbraccia e mi dà una specie di benedizione a modo
suo........ "Continua cosi, ce ne vorrebbero tanti che ancora
credono..."
Vi mando questa benedizione, questa preghiera. Questa urgenza:
credere!
E la profezia avvererà se stessa! È cosi!
Dr. Angelica Calò Livnè
(Kibbuz Sasa Alta Galilea )
da:
http://www.nostreradici.it/Angelica-Samar.htm
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