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Terra Santa, la pace è donna.
(F. Zeni)
La Vita Cattolica, sabato 17 maggio
2003, pag.13.
Una palestinese e un’ebrea
raccontano la propria amicizia.
Angelica Calò Livné Samar Sahhar
protagoniste di un libro.
Nei giorni scorsi due donne, che
vivono in Israele e in Palestina,
sono state protagoniste a Udine di
due incontri pubblici proposti dai
Centri culturali Il Villaggio,
Piccinini e Rosmini, in
collaborazione con l’Avsi,
l’Associazione Volontari per il
Servizio Internazionale. Il primo
incontro, con 400 studenti delle
scuole superiori udinesi, si è
tenuto all’Istituto Tomadini, mentre
il secondo nella sala Madrassi di
via Gemona. Il pubblico, in entrambe
le occasioni, ha potuto toccare con
mano il desiderio di pace che, da
una parte e dall’altra, la gente
vive in Terra Santa. Le due donne
sono Samar Sahhar , cristiana
palestinese, e Angelica Calò Livné,
ebrea di origine italiana. Samar
vive a Betania, a pochi chilometri
da Gerusalemme, dove dirige un
orfanotrofio per 108 bambini
musulmani, una scuola che accoglie
300 ragazzi musulmani del villaggio
e una casa d’accoglienza per donne e
bimbe abbandonate. I suoi bambini la
chiamano mamma Samar , pur essendo
lei laica consacrata. L’Avsi, che in
tutto il mondo ha realizzato oltre
130 progetti di solidarietà sociale,
sostiene la sua attività. Angelica è
giornalista, regista teatrale e
insegnante di educazione teatrale.
E’ sposata con Jevuda e ha quattro
figli maschi. Angelica ha raccontato
dell’amicizia nata con Samar nel
libro "Un si, un inizio, una
speranza" edito in lingua italiana
da Itaca Libri. Abbiamo intervistato
queste due donne, che, con la vita e
la loro amicizia, rendono la pace in
Terra Santa un obiettivo più vicino.
I tre Centri culturali e l’Avsi
hanno coronato così la serie di
incontri pubblici dedicati alla
situazione in Medio Oriente e al
dialogo con il mondo musulmano, che
hanno visto a Udine personaggi del
calibro di monsignor Fouad Twal,
Vescovo di Tunisi, del professor
Samir Khalil Samir, docente
ordinario all’Università di Beirut e
che ha insegnato in atenei di tutto
il mondo , e di Sobhy Makhoul,
segretario generale del Patriarcato
Maronita di Gerusalemme e professore
di Teologia e Morale all’Università
Cattolica di Betlemme.
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Angelica Calò Livnè: così ho
conquistato il cuore degli arabi.
(F. Zeni)
La Vita Cattolica, sabato 17 maggio
2003, pag13.
Calò Livnè, nata a Roma , 28 anni fa
ha deciso di lasciare tutto e di
andare a vivere in Israele. Ha
sposato un ebreo e avuto quattro
figli maschi. Fino a 20 anni è
vissuta a Roma. "Facevo parte del
movimento giovanile sionistico
"Peace now" e nello stesso tempo
studiavo nel collegio rabbinico, ero
l’unica donna – racconta -. Sono
stata allieva dei più grandi
Rabbini. Uno dei miei insegnanti è
stato Elio Toaff che, per la prima
volta nella storia, ospitò il Papa
nella Sinagoga.
Com’è maturata la sua decisione di
andare a vivere in Israele? "All’età
di 12 anni, quando ho fatto la festa
della Maggiorità religiosa, mio
padre mi ha domandato cosa volevo in
regalo. Ho chiesto di visitare
Israele; lui si è molto commosso. Di
ritorno da quel viaggio, ho pensato
che da grande avrei voluto vivere in
Israele."
Cosa significa per lei essere ebrea?
"E’
appartenere a un popolo che, nel
corso di 4000 anni, ha mantenuto le
tradizioni che legano la sua gente
l’uno all'altro. Ognuno di noi ha
bisogno dello spirito, di qualcosa
che va al di là delle vicende
terrene, che dia la voglia di dare
alla luce dei figli per insegnar
loro quelle stesse esperienze che
abbiamo vissuto."
Ora lei vive nel kibbutz Sasa, ad un
chilometro dal confine con il
Libano. "Il
kibbutz è l’espressione dell’idea
marxista dove ognuno dà secondo le
sue possibilità e riceve secondo le
sue necessità. Ma oggi, in un modo
tutto in crisi dal punto di vista
ideologico, c’è una crisi anche in
questa idea. Altri, perciò vivono
nel moshav, dove i mezzi sono in
comune, però ognuno conserva dei
propri spazi di vita privata. Il
nostro non è un kibbutz ricco, ma
abbiamo dato tante energie perché
diventasse un centro culturale per
tutta la Galilea; nella nostra
scuola studiano i nostri figli, ma
anche quelli che vivono nei moshav e
poi i ragazzi circassi, drusi e
arabi."
Quindi la scuola del suo kibbutz è
una scuola multiculturale. "Si.
Rispettiamo le feste dei circassi,
quelle degli arabi e anche le
nostre. Ogni tanto, in ogni classe,
si fanno degli incontri dove i
bambini portano i cibi che si usa
preparare nelle loro famiglie.
Ognuno nella festa porta qualcosa di
tradizionale. Così i ragazzi, già
dalla prima elementare, imparano che
ognuno è diverso, che si deve
rispettare per quello che è, che
ognuno ha una sua bellezza, proprio
perché è diverso da me.
Lei è regista teatrale ed
insegnante. Come concilia queste due
attività? "Insegno
teatro perché nel nostro
ordinamento scolastico sono previste
due ore alla settimana. Due anni fa
insegnavo in cinque scuole;
all’inizio della nuova intifada ho
voluto andare ad insegnare anche in
una scuola araba. L’anno scorso ho
dovuto smettere perché la situazione
in Israele è diventata una
catastrofe: tutti gli insegnanti che
non erano fissi sono stati
licenziati. Così l’anno scorso ho
fondato un teatro della Galilea."
A quale genere di teatro sta
lavorando? "Stiamo
allestendo uno spettacolo sulla base
del testo scritto da ragazzi ebrei e
ragazzi arabi; lo spettacolo lo
inventano loro, per lanciare un
messaggio di speranza. Come
insegnante mi trovo in situazioni
imbarazzanti, davanti a ragazzi di
quindici anni che mi dicono: "Se mi
trovassi in un attentato e perdessi
un braccio o una gamba preferirei
morire." All'inizio i ragazzi mi
dicevano "Non abbiamo niente da
dire, a noi non ci interessa". Ho
chiesto loro che cosa avrebbero
voluto trasmettere come messaggio a
qualcuno che non abita in Israele e
la cosa più bella è che non c'è un
messaggio di odio; nonostante la
paura, il dolore, la tragedia che
stiamo vivendo."
Insegnando in una scuola araba, le è
mai capitato di confrontarsi anche
con dei fondamentalisti? "Una
volta ho visto che un ragazzo aveva
un ciondolino al collo, gli ho
chiesto "che carino, che è questo
ciondolino?" Mi ha risposto che si
trattava di uno shaid, che
rappresenta il kamikaze suicida, e
che il suo sogno era di morire per
la Palestina. Con la poca forza che
mi era rimasta nella voce gli ho
detto: "Amore mio, tu non devi
morire per la Palestina, tu devi
vivere per la Palestina e io devo
vivere per Israele , tutti noi
dobbiamo vivere perché se tu muori,
perdi tutto".
E di esperienze positive con i
ragazzi arabi? "Un
giorno sono arrivati a scuola
svogliati: "Siamo stanchi, stiamo
facendo il digiuno del Ramadan." Ho
capito che avevano fame e la lezione
non si poteva fare; allora ho
chiesto "e che si fa nel Ramadan?
Non sono mai stata a una festa del
Ramadan". E’ stata la lezione più
bella dell'anno. Quando una persona
sente il tuo rispetto, la curiosità
e l'interesse vero, si sente al
sicuro. Ho conquistato degnamente un
posto nel loro cuore."
Lei ha quattro figli maschi. Come si
sente una madre israeliana di fronte
a questa guerra? "Ogni
volta che mi è nato un figlio, come
tutte le madri israeliane, ho
pregato perché dopo 18 anni non
dovesse fare il soldato. Il primo
dei miei figli è già nell’esercito,
come infermiere. Recentemente siamo
stati al suo giuramento; un
passaggio della formula dice
testualmente: "Giuro di soccorrere
tutti, sia amici che nemici."
Buona parte dell’esercito israeliano
è formato proprio da giovani. Come
percepiscono questa guerra? "Prima
di prendere l'aereo per l’Italia un
soldato mi ha detto di raccontare
che in prima linea non stanno i
soldati, ma la gente stessa che va a
comprare il pane, che va in un
cinema, che sta a casa a raccontare
una favola o sta cantando una ninna
nanna ai propri figli."
Ci si abitua agli attentati? "Ad
ogni attentato piango, ad ogni
soldato che muore piango.
Cosa pensa del lavoro della sua
amica Samar ?
"Lei rischia la vita per le cose che
fa. E’ una donna stupenda; tutte le
volte che succede qualcosa mi scrive
e ogni volta che succede qualcosa in
Palestina io le scrivo e cerchiamo
di fare qualcosa insieme; adesso è
impossibile perché lei non può
venire in Israele e io non posso
andare da lei perché è
pericolosissimo."
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Samar Sahhar: nel nostro
orfanotrofio cresce la generazione
della speranza.
(F. Zeni)
La Vita Cattolica, sabato 17 maggio
2003, pag.13.
Si chiama "Jel al Amal", cioè
"Generazione della speranza"
l’orfanotrofio nato a Betania nel
1971 quando i genitori di Samar
Sahhar hanno affittato una camera,
per poter aiutare 10 bambini. "Il
mio babbo- racconta - diceva sempre:
"10 bambini e basta". Con nostra
sorpresa, l’Ufficio sociale
israeliano ci mandava continuamente
bambini abbandonati. Dovemmo
comprare un terreno per poter
costruire un orfanotrofio. In 32
anni abbiamo costruito, pietra su
pietra, due edifici; in uno abitano
i 108 bambini orfani, mentre
nell’altro c’è la scuola, che è
aperta per tutti i 300 bambini della
nostra zona. A Betania quasi tutti
sono musulmani. Quando siamo
arrivati c’erano solo due famiglie
cristiane: la nostra e un’altra."
Da dove provengono i bambini che Lei
accoglie? "Alcuni
anni fa una donna è venuta a dirmi
che aveva trovato tre bambini dentro
un pollaio. Erano lì da un anno,
quasi sul punto di morire. La bimba
maggiore adesso ha 13 anni e vuole
diventare dottoressa. Un’altra
storia è un vero miracolo
dell’amore: avevamo sentito che a
Hebron era stato trovato un bambino
sotto un albero. Era molto malato,
curvo, orfano di ambedue i genitori.
Gli altri parenti pensavano che
sarebbe morto. Lo hanno portato in
vari posti della Palestina, ma
nessuno lo accettava. Noi lo abbiamo
subito accettato. Anche le mamme
della nostra casa dicevano "come è
possibile tenerlo?" Aveva le mani
senza vita, era molto malato. Non
poteva neanche dire una parola, né
camminare. Allora l’ho messo in
camera mia, sul mio letto e ho
cominciato a pregare per lui:
l’unica cosa che potevo fare. Dopo
alcuni giorni, la prima parola che
ha detto è stata "Mamma Samar".
Adesso parla senza smettere, anche
di notte; fa la terza classe della
scuola, ama il computer; all’inizio
sembrava fosse ritardato, invece è
molto intelligente e vivace. Aveva
solo bisogno di una mamma, di
qualcuno che parlasse con lui.
Questo bambino ha superato 4
operazioni pagate dagli amici che
abbiamo in tante parti del mondo.
Alcuni anni fa, a Natale, in un
villaggio vicino a Betlemme, tre
suore hanno trovato una bambina di
quattro anni incatenata in una
grotta. Hanno fatto di tutto per
salvarle la vita. Adesso è con noi,
ha otto anni ed è molto vivace.
Qualche giorno fa mi ha detto "io
voglio andare all’Università". Le
storie dei nostri bambini sono così.
Sono storie piene di tristezza, ma
la nostra casa è piena di gioia. I
nostri bambini hanno speranza nella
vita. Sono sicura che diventeranno
qualcosa di molto importante e di
buono per il futuro della società.
Lei ha dato vita anche alla "Lazarus
home"
"In Palestina non esistono luoghi
per le donne in difficoltà. Ci
telefonano sempre per dirci: c’è una
donna per la strada, c’è una donna
in prigione. Così, cinque anni fa, è
nata la "Casa di Lazzaro". Da noi le
donne non hanno un valore, non
possono né vivere né lavorare, non
sono come i maschi. Una volta
ripudiate dal marito, che si
ricostruisce una nuova famiglia,
possono essere uccise da chiunque e
chi lo fa può vantarsene.
Recentemente la televisione giordana
ha iniziato a parlare del problema e
a chiedere che la legislazione
preveda questo reato. Adesso la
"Casa di Lazzaro", in tre stanze,
accoglie 33 persone, tra donne e
bambine. Quelli che vivono attorno a
noi sono contrari a quest’opera,
hanno raccolto le firme per farla
chiudere, ma fino ad ora non hanno
vinto. Non credono che queste donne
debbano essere aiutate; è contro la
loro cultura, la loro mentalità.
Ma chi l’aiuta in quest’opera? "Dio.
Poi ci sono tanti amici che ci
aiutano; ad esempio l’AVSI in
Italia, gli "Amici della Lazarus
home" in Inghilterra. La nostra non
è l’opera di un governo, ma l’opera
di umili servi di Dio. Adesso
abbiamo amici in tutto il mondo.
Vuol dire che non ricevete delle
sovvenzioni, né dal governo
palestinese né da quello israeliano?
"E’
così. Non c’è bisogno del governo,
perché c’è Dio, che ha più potere
degli uomini.
Ma lei ha in mente altri progetti? "Stiamo
cercando di comprare il terreno e di
costruire una casa per le bimbe e
per le donne. Poi vogliamo fare un
panificio, che servirà a sfamare i
bambini; durante il coprifuoco non
possiamo uscire a comprare il pane.
Sto cercando donne palestinesi che
nel panificio facciano dolci per la
pace, da vendere in Israele; cerco
anche donne israeliane che mi
aiutino. La cosa importante non sono
i soldi, ma creare un rapporto tra
le donne palestinesi e donne
israeliane. In tutto il villaggio di
Betania c’è la necessità di avere
un’infermeria, in primo luogo per i
nostri bambini, ma anche per gli
altri.
Cosa significa per lei l’amicizia
con Angelica Calò Livnè?
In questa guerra ci sono muri e
posti di blocco, che gli israeliani
costruiscono per non lasciare che il
popolo palestinese vada in Israele.
Angelica mi ha telefonato dicendo:
"Sto cercando un’amica della
Palestina". All’inizio mi sono
spaventata, ma subito mi ha spiegato
che era amica del movimento di CL.
Non è una cosa molto normale che una
israeliana faccia amicizia con una
palestinese. E’ un’amicizia molto
bella, è una luce in mezzo al buio
di oggi. Siamo diventate molto
amiche, ma Angelica non può venire a
trovarmi perché ha il passaporto
israeliano e non può entrare in
Palestina. Allora ci siamo
incontrate per la prima volta a casa
di mia madre, a Gerusalemme , ed è
stato molto bello . Ho anche un
altro amico israeliano, un rabbino,
che ho conosciuto quando ha trovato
una donna palestinese nel deserto di
Gerico ed ha rischiato la vita per
portarla in macchina fino alla
nostra Casa. Ha davvero rischiato,
perché è impossibile per un
israeliano tenere in macchina una
donna palestinese.
Dai suoi racconti sembra che ci sia
tanta voglia di pace da tutte e due
le parti. "Tempo
fa a Betania abbiamo vissuto una
giornata molto bella. Mentre
tornavamo a casa , con mia figlia
siamo state bloccate da una
dimostrazione di israeliani e
palestinesi insieme, per la pace:
tutti quelli che erano in casa per
il coprifuoco sono usciti ad
abbracciare gli israeliani, e questi
abbracciavano i palestinesi, mentre
i militari continuavano a tirare i
fumogeni. Ritornando verso
l’orfanotrofio, ho visto per strada
una donna israeliana, da sola, e
sono andata a dirle "Grazie perché
sei venuta qui per la pace". Mi ha
risposto "Sono qui perché non posso
sopportare il gas; tutti noi, popolo
di Israele, vogliamo la pace, ma il
nostro governo no". Ho detto
"Neanche il nostro governo". Le cose
stanno così. Siamo tutti esseri
umani, ma i governi non vogliono la
pace."
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L’accoglienza in
famiglia è
dimensione
normale.
(F. Zeni)
La Vita
Cattolica,
sabato 17 maggio
2003, pag.4.
Convegno a Udine
"L’accoglienza
in famiglia: una
straordinaria
normalità"
è il titolo
dell’incontro
pubblico
organizzato per
sabato 17
maggio, alle ore
17, presso la
sala Paolino
d’Aquileia a
Udine
dall’Associazione
Famiglie per
l’accoglienza. A
tutti è
capitato, almeno
una volta , di
imbattersi in
qualche esempio
di famiglie che
hanno, per usare
un termine
tratto dallo
sport, una
marcia in più;
luoghi di vita
aperti, con un
forte senso
dell’ospitalità
e nei quali il
diverso non
costituisce un
problema, ma,
all’incontrario,
una ricchezza.
Famiglie gioiose
e, nel contempo,
impegnate nei
vari aspetti che
la vita
prospetta.
Eppure le
statistiche più
recenti, con il
continuo aumento
dei cosiddetti
single, mettono
in luce
l’incapacità
sempre più
diffusa nella
società
contemporanea di
vivere la stessa
esperienza di
coppia; ci si
può, perciò,
immaginare il
destino che, in
tale contesto,
può fare la
propensione ad
aprirsi ai
bisogni di
altri, esterni
al nucleo dei
più stretti
parenti. In
realtà, per una
famiglia, dice
Angela Domini,
che è la
responsabile
udinese
dall’Associazione
Famiglie per
l’accoglienza,
la capacità di
ospitare altri,
come ad esempio
persone non
appartenenti
alla cellula
originaria, ma
anche persone
con
problematiche
varie, non
rappresenta
qualcosa di
straordinario;
l’accoglienza è
una dimensione
normale per la
famiglia, perché
sta scritta
nella sua
dimensione
costitutiva. Con
l’incontro
pubblico del 17
maggio, che cade
proprio a
ridosso della
Giornata
mondiale della
famiglia,
prosegue Angela
Domini vorremmo
dimostrare,
attraverso tanti
esempi che
conosciamo anche
nella realtà
friulana, che
l’esperienza
dell’accoglienza,
invece di
impoverire chi
la vive,
arricchisce i
singoli, le
famiglie e le
rende più solide
e motivate.
"L’accoglienza,
si legge nei
depliants
dell’associazione,
è una dimensione
normale della
vita: ospiti di
passaggio,
famigliari di
malati, ragazze
madri, anziani,
giovani e adulti
in difficoltà,
disabili,
stranieri e
studenti
chiedono,
frequentemente,
di essere
accolti nelle
nostre famiglie.
L’origine di
fatti concreti
di apertura e di
accoglienza,
precisa la
presentazione, è
l’avvenimento di
Cristo, che si
fa presente
nella comunità
cristiana. La
nostra
Associazione ,
riprende Angela
Domini, è attiva
dal 1982 in
Italia e da
oltre 10 anni in
Friuli Venezia
Giulia. Lo scopo
è condividere e
approfondire,
attraverso
momenti di
convivenza e di
confronto, le
esperienze di
apertura che già
molte famiglie
vivono; ormai
gli esempi di
ospitalità
vissuta si
contano a
migliaia. "Ci
muove, conclude
Angela Domini,
il desiderio di
favorire la
crescita di una
cultura attenta
all’uomo e al
suo destino.
Sentirsi accolti
ed amati
rappresenta
un’esperienza
indispensabile
per la crescita
integrale delle
persone e la
famiglia è il
primo ambito
naturalmente
accogliente." La
relazione
introduttiva
all’incontro
pubblico sarà
tenuta dalla
professoressa
Lia Sanicola,
che nel 1982 è
stata tra le
fondatrici
dell’Associazione
ed insegna nel
Corso di laurea
in Servizio
sociale delle
università di
Parma e di
Friburgo.
Autrice di
numerose
pubblicazioni
sull’argomento
dell’accoglienza,
Lia Sanicola è
coinvolta
direttamente con
la propria
famiglia in
esperienze di
solidarietà e
nella
cooperazione
internazionale
con Paesi
dell’America
Latina , Africa
ed Est Europa.
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